Autore: Giuseppe Genna
Giudizio: ****
Questo è il romanzo italiano che discorre, nel bene e nel male, del bene e del male, del crimine che conduce la nazione intera ad un finale circolare quando il narratore osserva tutto e tutti ed è osservato da sé stesso e da tutti. Una trama senza fine, sempre nuova e sempre già vista, un trauma infinito. Una soluzione scientifica talmente certa da poter essere contestata come incerta perché scientifica e quindi falsificabile per l'assenza di un pezzo. Non c'è confessione perché non c'è pentimento. C'è angoscia per la bambina, disprezzo per le modalità ed i comportamenti che si manifestano ai bordi della storia: non sono bordi ma contesto che accompagna alla tragedia. Per chi opera in quel contesto c'è ammirazione per la soluzione tanto difficile quanto controversa, ma tutti questi vengono accompagnati al patibolo, colpevoli di non aver dato risposte tempestive.
È un romanzo chiuso in partenza del quale si conosce già il tragico esito ed è ripiegato sul Paese perché lo rappresenta in modo letterale. Quell'Italia immutata ed immutabile dai tempi di Alfredino a Vermicino, ma ancora prima dai tempi della peste manzoniana. Una nazione che si unisce al profondo strazio per annusarlo, vederlo, chiacchierarlo.
Il comandante dei carabinieri, il questore, la sostituta procuratore, il responsabile della protezione civile, i volontari, lanciati tutti senza sosta e senza tregua a dare il meglio, il massimo, in una sfida contro il tempo per salvare la figlia della nazione, la figlia di tutti. È questo fardello che ognuno di loro porta sulle spalle. Grava come un macigno e fa spingere tutto al massimo con la possibilità di tralasciare, sbagliare, sottovalutare. Un Paese intero cerca Yara, spera di trovare Yara, trova Yara e la piange. La piange perché lei è innocente di tutte le colpe che ha l'intera nazione perennemente in visione ed in ascolto. Il vero crimine sta nell'osservare in modo morboso il crimine.
Ora la giostra cambia verso, diventa cercare il mostro, sperare di trovare il mostro, condannare il mostro. L'esigenza di un capro espiatorio dà ossigeno e linfa ai cronisti ed alle fonti ed al pubblico strabordante, evidente, invadente, mai esausto sempre pronto a macerare e metabolizzare ogni parte della tragedia, anche la più sorprendente e controversa possibile. Pubblico al quale viene somministrato lo strazio dei genitori, l'impegno delle ricerche, la prima ipotesi investigativa, la seconda ipotesi investigativa e via così, via così. Una ricerca spasmodica che tralascia altri due cadaveri dimenticati a pochi passi dai luoghi dove anche Yara è stata trovata. Ma sono cadaveri minori perché il Paese attende altro ed avrà altro. Questo altro diventerà possibile attraverso l'intuizione mastodontica di mappare il dna dell'intera popolazione potenzialmente coinvolta e all'altra intuizione che, al contrario, è priva di scienza, ma piena di conoscenza del territorio e dei suoi abitanti. Le intuizioni si supportano anche nelle contraddizioni.
Il Paese attende fiducioso nella sfiducia che riserva alle istituzioni, fiducioso nella culturale necessità di dividersi tra innocentisti e colpevolisti, fiducioso nella possibilità di essere anch'esso parte in causa attiva, seppur passiva, davanti alla TV, ascoltando la radio, leggendo i giornali. Un Paese che vuole dire "io c'ero" perché questo è il suo solo valore, esserci.
Una lettura che ho temuto perché intravvedevo un grande buco nero nel quale sarei finito senza via di uscita. Ed il mio timore si è concretizzato, Giuseppe Genna ha materializzato la letteratura nel buco nero quello in cui respiri in funzione del respiro a venire e non del respiro corrente. Ogni adesso ha un dopo che riporta ad un prima perché quello che verrà dopo è l'eterno ritorno di quanto già accaduto. Una fine senza fine.