Autore: Giuseppe Genna
Giudizio: ****
Chi pensa che questo sia un "instant book" sulla virulenza del SARS-CoV-2 è fuori strada. Naturalmente gli effetti della pestilenziale diffusione del virus attraversano tutte le pagine tra le
sofferenze umane, l'atterrito stupore, la mal calcolata sottovalutazione, la conclamata impreparazione. Però il romanzo non è un memoir. Il testo non narra l'"apocalisse" di una nazione, e
del suo popolo che è popolo di individualismi, perché marca la "transumanza della nazione" verso l'apocalisse che è sempre la penultima apocalisse per il suo popolo. Un percorso collettivo,
disordinato e caotico governato con sapienza ed attenzione senza che la mandria ne abbia la visione d'insieme: ogni capo vede la sua parte. Questo percorso parte da lontano e chi guida il
gregge sa dove andare, ma lo fa con gli strumenti che ha a disposizione: inadeguati, insufficienti, incontrollati nel nuovo contesto.
Capomastro è pronto al necessario, sa cosa sarebbe necessario, ma scruta nel vuoto dell'antagonista invisibile a tutti, anche a lui. Il sindaco è pronto a tutto perché ha studiato, perché è
preparato, perché ha esperienza, ma il paradigma è mutato, si scopre impreparato, la peste lo segna, la peste lo piega. Il prete eretico prega Dio per tutti i morti e lo bestemmia perché ha
lasciato che tutte le anime diventassero merce, assumessero un valore monetario di un conio fuori corso. Le dottoresse ed infermiere sole a fronteggiare anche le loro solitudini e le loro
stanchezze in una guerra che non può essere di posizione perché il virus assalta gli esseri umani con la cavalleria ed aggira e penetra nelle postazioni di difesa ultima, le cittadelle degli
ospedali diventano i focolai.
L'avanguardia è la prima ad essere colpita ed in modo più pesante. La Lombardia, Milano, Bergamo, quell'avanguardia che non può smettere di correre per sentirsi prima perché essere
avanguardia richiede il primato.
Gli scaffali vuoti dei supermercati è l'inaudita visione, è vedere il silenzio perché non c'è più niente da dire: nessuno, a parte gli addetti all'allestimento, aveva mai visto il fondo di
uno scaffale. E cosa sentivano, cosa pensavano questi operai votati all'umano sostentamento vedendo quel fondo? E cosa pensiamo, cosa sentiamo noi, ora, vedendo quel vuoto? L'assalto al forno
per paura più che per fame. La versione della tragedia che tutti vediamo è questa, non vengono mostrate le sofferenze negli ospedali, le morti in casa per l'impossibilità di "masticare
l'aria", la rassegnazione più che lo sgomento di chi deve attendere la fine senza poter cambiare canale. Non vediamo il campo santo dove vengono sepolti i cadaveri "non reclamati", ma senza
lapide perché, un domani, qualcuno potrebbe reclamarli. Lo spettacolo deve continuare anche se rimane nascosto, dietro alle quinte. Non è realtà, è un reality, approssimazione sceneggiata e
rappresentata con una regia selettiva della realtà. È per questo che vediamo colonne di camion militari che escono da Bergamo fornendo l'unico soccorso che pare possibile portare alla città
colpita: incenerire le salme altrove, la città non riesce a reggerle sulle proprie spalle. Posti di blocco, allestiti per le zone rosse, che scompaiono perché ora tutto è bloccato senza
bisogno di quei presidi. Sentiamo un senatore che dice che i morti di Brescia e Bergamo ci chiederebbero di riaprire e sentiamo in queste parole l'atmosfera di un agone in cui la
sceneggiatura e la regia danno un colpo di reni per tenere avvinti al reality e non alla realtà. Al contempo vediamo un vecchio, zoppo, di bianco vestito che solo in una piazza si erge a
difesa dell'umanità intera che lo guarda senza vederlo, mentre lui vede l'umanità senza guardarla. Incidentalmente è il Papa, l'autorità morale per antonomasia, che prega per la realtà pur
essendo egli stesso nel reality.
Fra qualche anno questo libro sarà invecchiato, come invecchiano le serie ed i reality televisivi al mutare della contemporaneità. Resterà invece forte, indelebile, roccioso il vigore del
percorso umano che incede, caracollando, verso un'apocalisse che è sempre la penultima apocalisse. Si racconta della scolaresca nei pressi di Codogno, rimpinzata dai dirigenti della
Polenghi-Lombardo con caramelle galatina, che è chimica commestibile, ma che costringerà tutti i bambini sul pullman all'esperienza collettiva del vomito. Si racconta di Chernobyl che
esplode, liberando nell'etere sostanze radioattive, cesio che decade in 30 anni, ed impedirà alle popolazioni del nord di bere latte fresco e mangiare verdure a foglia larga. È un'apocalisse,
ma non è la prima e non sarà l'ultima. È preceduta dall'apocalisse del Seveso, che insiste sugli stessi territori, ma di questo non si fa menzione forse perché se le apocalissi sono sempre e
solo le penultime sarebbe opportuno prepararsi alla successiva: ma non succede, non succede mai. La forza del libro sta in questa transizione assente, non pervenuta, trascurata dal reality.
La provvida sventura che succede alla precedente e la lava, la nasconde, la dimentica in modo che si possa continuare a correre come in un reality avulso dalla realtà.