Erano stati tempi clandestini quelli in cui seppi districarmi meglio di tanti, peggio di altri. Fu una notte assai lunga nella quale lo schierarsi poteva essere la morte ed il non schierarsi
sarebbe stata sicuramente la morte.
Poi il tempo volse a nostro favore, le genti volsero a noi i loro cuori sempre con umiltà e partecipazione certi che sarebbero stati utili per un valore superiore purché avesse, per loro stessi e
non per altri, un valore tangibile. Nel clamore che seguì non riuscii più a ritrovarmi, perso a me stesso, riconoscibile solo agli altri, clandestino di me stesso.
Amai i primi tempi clandestini, di studio e sofferenze, durante i quali ci nascondemmo alla morte, mentre nel seguito, seppur vincitori, ci nascondemmo alla vita. Avevamo fatto il nostro, avevamo
esaurito l'inerzia della propulsione iniziale che ci aveva sospinto a dire e fare quello che altri non dissero e non fecero. Quando questi ultimi iniziarono a parlare, rimanendo accomodati sulle
loro sedie senza particolari idee, ma con particolari ossessioni, era chiara la nostra fine, era evidente la prossima nuova ed irriducibile clandestinità in nome del detto e non fatto, del fatto,
ma non abbastanza bene. Eravamo diventati irrilevanti prima ancora che obsoleti. Saremmo stati i primi, ma poi sarebbero sopraggiunti anche gli altri, loro e nostro malgrado.
Provai a dirlo prima a me stesso che a tutti noi, ma non riuscivo a comprendermi, mentre comprendevo perché tutti non mi comprendevano. Mi parevano già irrilevanti ed obsoleti con tutto il loro
armamentario riciclato e messo a nuovo per ogni occasione.
Era di nuovo scesa la notte e sarebbe bastata questa per la nuova clandestinità, una clandestinità alla luce della luna e poi del sole era all'orizzonte. Non era più vita o morte, ma solo
oblio.