Si credeva fosse Carlo, ma avrebbe potuto essere Ernesto, Antonio, Piero, Luigi. Lo si vedeva passare davanti al bar con le mani legate tra loro dietro alla schiena e con la testa bassa come a
cercare i sassolini lasciati il giorno prima per tornare a casa. Nessuno gli parlava, era un cittadino noto a tutti, ma dall'ignoto passato e presente.
Alla mattina comprava il giornale, tutti i giorni di una differente testata, e si sedeva per 30 minuti, non uno di più, non uno di meno, lungo il vialetto del parco sulla panchina di fronte ai
campi da bocce che, a quell'ora, nessuno frequentava. Immerso nella lettura nessun rumore, nessun passaggio lo distoglieva. L'unico movimento che produceva era girare le pagine del giornale con
gesto ampio e concluso a ripiegare il foglio in due.
Passati i 30 minuti si alzava, infilava il giornale piegato in quattro nella tasca della giacca e, con le mani legate tra loro dietro alla schiena e la testa bassa, tornava da dove era venuto.
Non dite che era scialbo o brillante, che era triste o felice, che era solitario o socievole, che era cattivo o buono, perché nessuno lo conosceva per poterlo affermare. Era persona nota per la
quale, quando i carabinieri chiesero notizie a seguito della sua scomparsa, nessuno seppe dire se era Carlo, Ernesto, Antonio, Piero o Luigi.
Da "Perché non mi chiamo con il mio nome" di Max Vonsy