Alcune considerazioni sul perché ritengo sia stato utile per me fare il servizio militare e sul perché spero che mia figlia possa fare altro
Travaglio, in un suo editoriale primaverile, concordava con l'ex ministro Salvini almeno su un punto: la reintroduzione del servizio militare obbligatorio. Vi invito a cercare questo testo e
leggerlo perché Travaglio utilizza le suggestioni della sua esperienza personale, esattamente come posso fare io, carrista Caiazzo, 9/90 (nono scaglione del 1990), incarico 16b. Per i non addetti
ai lavori l'incarico 16b è il cannoniere di carro armato, all'epoca modello Leopard. Il cannoniere è quello che spara con il cannone da 105 o con una mitragliatrice MG. [Nell'immaginario
collettivo, quest'ultima, è la mitragliatrice che Rambo impugna, una per braccio, come se fossero una rivoltelle, ma vi garantisco che peso e rinculo la rendono inutilizzabile in questo modo da
un essere umano]. L'incarico è quindi quello di "assassino" con 3 complici: servente, pilota e capo carro.
Ma questo poco importa alle considerazioni che seguono sulla mia esperienza del servizio di leva.
I punti dirimenti, secondo Travaglio, risiedono nel fatto che ordine, disciplina ed allontanamento da casa diano conoscenza, consapevolezza, rispetto necessario in un mondo più ampio che la vita
borghese non darebbe ai giovani. Il concetto viene solo abbozzato, non lo si espone compiutamente perché l'editoriale è di una sola colonna e non possiamo pretendere molto di più dalla
suggestione tratteggiata come romantica esperienza di passaggio all'età adulta da parte di Travaglio. In fondo è un giornalista e non un poeta. Per Salvini, invece, è l'educazione il punto
saliente, anche se non si sa bene a cosa, certamente non al rispetto degli altri visto i comportamenti del "milite in congedo permanente effettivo" Salvini (ebbene sì, Salvini pare abbia assolto
l'obbligo di leva).
Sui punti enunciati da Travaglio mi trovo in sostanziale sintonia, c'è un fondo di verità. Il ventenne che esce da casa e, per la prima volta in vita sua, ha l'assoluta responsabilità individuale
di ciò che fa, di come si comporta nei rapporti interpersonali senza il "clan" di contorno (famiglia ed amici) è convincente. La necessità di relazionarsi con gli altri in un ambito sconosciuto è
elemento di crescita e di esperienza relazionale.
Farlo secondo un "galateo" fuori dall'ordinario per cui ogni volta che ti chiama un superiore devi scattare sugli attenti e gridare "comandi!" mi appare elemento distorsivo, ma certamente
richiede presenza di spirito e di adattamento. Poi c'è la convivenza tra commilitoni, i dialetti incomprensibili, le abitudini inaspettate. Tutto questo prescinde dal protocollo militare ed
arricchisce.
Io, per esempio, ho scritto, sotto dettatura, alla madre del mio compagno di branda, Giuseppe. Era un ragazzo gentile, educato, timido e faceva l'ambulante con i genitori. Nel gestire conti e
resti io non avrei saputo tenere il suo passo ed in effetti quando si usciva per una pizza i conti sapevamo che li avrebbe fatti lui, ma con le "lettere" aveva grossi problemi. A partire
dall'ordinario e del profitterolles che chiamava "i bal dal can".
A Giuseppe successe un "incidente" con il sottotenente di un altro plotone. Il mio compagno indossava scarpe da ginnastica perché gli anfibi gli avevano prodotto profonde ferite per la rottura
delle vesciche ed in infermeria lo avevano dispensato per una settimana. Doveva però portare la "velina" (la dispensa timbrata dal responsabile dell'infermeria) sempre con sé. Una sera scendemmo
dalla camerata per andare in mensa. Eravamo un gruppetto di 7/8. Ci fermò il sottotenente (incidentalmente paracadutista) che gli gridò: "dove credi di essere? Pensi di essere a casa tua? Stai
punito!". Gli altri si dileguarono, io restai perché il povero ragazzo era sommerso dall'accusa senza capire cosa aveva fatto per meritare la punizione, stava affogando, non riusciva a parlare.
Cercava la "velina", ma non la trovava e tremava, l'aveva lasciata nell'armadietto? Dissi che potevo testimoniare perché lo avevo accompagnato io in infermeria, quindi c'era una spiegazione da
fornire al sottotenente, ma per quest'ultimo non era sufficiente. Dissi all'ufficiale che sarei salito io a recuperare la velina per risolvere l'equivoco. Il sottotenente mi guardò e disse:
"Caiazzo, facciamo così. Io ti do questa possibilità, ma se mi state prendendo per il culo punisco anche te! Corri che ho fretta!" mentre mi strappava la strip sulla quale era stampato il mio
nome. Per fortuna trovai la "velina", scesi con il fiatone e la mostrai all'ufficiale che gridò: "Caiazzo! Bel nome! Non farmici giocare! È tua la dispensa? Sei tu che me la devi mostrare o
questo imboscato?". L'imboscato ovviamente era il ragazzo con i piedi doloranti che ebbe la prontezza di prendere la "velina" dalle mie mani e mostrarla all'ufficiale che la lesse. Terminata la
lettura ci disse che potevamo andare, non prima di ricordare che l'indomani avrebbe verificato personalmente se indossava gli anfibi perché la dispensa scadeva. A me restituì il nome da apporre
sulla mia divisa.
Giuseppe era di Torino, ma non legava nemmeno con i suoi concittadini, era troppo timido. Però dopo questo episodio si avvicinò al gruppo della nostra squadra. Ed un giorno mi fece la fatidica
domanda: "mi aiuti a scrivere a mia madre?". Pensavo scherzasse poi capii quando aggiunse "Lei non sa leggere e non voglio fare brutta figura con chi le leggerà la mia lettera".
Sono certo che Travaglio l'avrebbe "adeguata" molto meglio di come feci io, ma Giuseppe dovette accontentarsi di me. Se sono cresciuto non l'ho fatto grazie al servizio militare. Per mia fortuna
avrei fatto le stesse cose anche in un contesto borghese e certamente senza subire l'autorità ottusa che abbiamo subito. Certo l'ufficiale non era "cattivo" lui doveva far rispettare ordine e
disciplina e questo era il meccanismo. Non è educazione, ma obbedienza, cieca
Il comandante di un altro plotone, qualche giorno prima che la tradotta ci portasse al corpo di destinazione, fece un appello alla responsabilità di tutti per proseguire nel miglior modo
possibile l'anno. Bisogna ubbidire, sempre, in modo pronto e completo. Non chiedersi perché è stato dato un ordine, lo si deve solo eseguire perché durante il servizio militare non verrà chiesto
nulla di strano, nessuno di voi finirà su carri armati. È ironico che io, ed altri, siamo finiti proprio sui carri armati, altrettanto ironico che il sottotenente che ci ricordo i nostri doveri
ed obblighi non sapesse delle nostre destinazioni, aveva solo ubbidito ad un ordine.
L'allora ministra della difesa, Trenta, ha parlato anche di romanticismo. Sì, è vero, il termine romanticismo spacchetta il reale dall'immaginato o dal ricordato giovanile. I bei ricordi della
gioventù sono romantici e forse anche quelli più brutti cui vieni sottoposto per acquisire la disciplina.. Personalmente, a quasi trent'anni da quel periodo, riesco a vedere qualcosa di romantico
come aiutare un ragazzo, come me, in difficoltà,
Oppure affrontare il capitano per aprire l'armeria della compagnia. Lui terminava il servizio di "capitano di settimana" del battaglione ed io smontavo da una guardia settimanale [2 ore di
guardia e 6 ore di riposo per 7 giorni consecutivi]. Ero formalmente ancora di guardia quando l'ufficiale di picchetto venne da me dicendomi che l'armeria della mia compagnia doveva fornire le
armi al PAO, ma non c'erano né il furiere, né l'armiere perché entrambi in licenza (per chi non sa cosa sia il PAO consiglio la lettura di "Pao Pao" di Pier Vittorio Tondelli). Ancora con la
baionetta in cintura scrissi in triplice copia l'ordine di servizio da protocollare e mi affacciai all'ufficio del capitano. Dopo aver sbattuto i tacchi e salutato militarmente dissi
"Signor capitano, l'ufficiale di picchetto mi ha detto che la terza compagnia deve mettere a disposizione le armi per il PAO. Non c'è il furiere e quindi ho già scritto in triplice copia l'ordine
di servizio, ma lei deve aprire l'armeria."
"Caiazzo, ti rendi conto che io smonto da una settimana di servizio?"
"Signor capitano, me ne rendo conto, ma le armi devono essere consegnate e lei si renderà conto che anche io sto smontando da una guardia settimanale."
Mi guardò rimanendo in silenzio. Capi che non sarei arretrato e che non potevo ordinargli di aprire l'armeria, ma in qualche modo lo stavo facendo. Prese le chiavi ed insieme consegnammo le armi
al picchetto che sarebbe entrato in servizio. Mentre stava chiudendo l'armeria mi disse "Caiazzo credo che ci siamo decisamente meritati un intero giorno di riposo" ed ottenne in risposta un
cameratesco "Signorsì!".
Tutto questo non ha reso me, o Giuseppe, più educati o più rispettosi. Lo eravamo già prima grazie a tutto ciò che ci ha circondati fino a vent'anni. Facendo il militare abbiamo fatto
semplicemente un'esperienza in più che non ci ha migliorato, pur arricchendoci. Per questo motivo credo che la leva sia anacronistica soprattutto se l'obiettivo è quello che si prefigge l'ex
ministro Salvini. Per l'idea che ha Travaglio, e la Trenta, posso dire che non è necessario vivere la comunità in caserma. Può essere romantico se a distanza di trent'anni lo ricorderai con
affetto, ma è intercambiabile con qualsiasi cosa ricorderai con affetto purché sia un'esperienza, come la ritiene Travaglio, di ampliamento dei propri orizzonti.
Nota: ad oltre un anno dai fatti, quindi da borghese, chiamai Giuseppe per sapere come stava. Fu una telefonata gentile, ma fredda, forse inutile. Non ci siamo mai più sentiti.