a cura di Emiliano Ilardi, Annamaria Loche, Martina Marras
Giudizio: ***
Scorrendo il vocabolario Treccani online, fonte asperrima di ipotesi di cura per ignoranze recuperabili, per la parola "utopia" si trova il seguente approccio etimologico "dal nome fittizio di un
paese ideale, coniato da Tommaso Moro nel suo famoso libro 'Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia' (1516), con le voci greche οὐ «non» e τόπος «luogo»; quindi «luogo
che non esiste»]". Da cui si coglie la suggestione secondo la quale si sta parlando di fantasia, di sogno irrealizzabile: state sereni, è tutto finto, è l'isola che non c'è.
Soprattutto in ambito politico e sociale i media utilizzano il termine "utopia" per descrivere una bella idea, ma irrealizzabile. Non irrealizzata, proprio impossibile da vedere, solo disponibile
per l'immaginazione. Ed il sentimento comune porta a ricontrattare il peso ed il significato rivoluzionario delle parole simbolo "libertà, fraternità, uguaglianza" proiettate dall'illuminismo
nella vita reale come disponibilità concrete. L'illuminismo, che non è stato all'altezza delle aspettative, si fa portatore di un'utopia inconciliabile con la realtà e con i nostri stili di vita.
È stato bello crederci, ma facciamocene una ragione, non sono realizzabili. Punto.
In questa agile raccolta di testi, già dal titolo, si coglie il mascheramento. Già in premessa si enuncia la troppo spesso trascurata coesistenza di utopia (bella) con distopia (brutta). Si
assume che la prima possa essere in qualche modo "corrotta" realizzandosi attraverso la seconda (il bello che diventa brutto). Gli scritti presenti in questa raccolta descrivono elementi
caratteristici delle une e delle altre. Per esempio il fatto che l'utopia, e quindi la distopia, sono assai antiche nonostante il primo termine sia stato coniato da Tommaso Moro (Thomas More, nel
testo, che sanificata la cattiva abitudine di italianizzare i nomi) solo nell'epoca moderna.
Se all'inizio l'utopia ha una valenza politica e sociale negli ultimi 20 anni si mostra che di utopie e distopie non trattano più filosofi, politologi, sociologi, romanzieri, ma tecnologi e
scienziati. La tecnologia e la scienza pare che siano portatori salvifici di idee future e saldamente ancorate al presente. In parte ogni utopia emerge da una speranza concreta ed ottimista per
il futuro, un vincolo reale volto a compiere azioni "politiche" che conducano in un mondo migliore. Una speranza. Allo stesso modo la distopia parte da una paura e non da una speranza: la paura
che le azioni concrete e le aspirazioni dell'umanità vengano corrotte da eventi traumatici (guerre civili o tra potenze contrapposte, disastri ambientali, supremazia delle tecnologie) che
conducano l'umanità a raggiungere più miti approdi in nome della "pace". La qualcosa dovrebbe essere apprezzabile, ma la pacificazione sarà il bene supremo per la quale si immola la libertà.
Negli scritti qui raccolti si trovano valutazioni ed analisi dei lavori di autori come Orwell, Huxley, Bradbury, come potrebbero mancare?, ma anche la produzione cosiddetta young-adult (Hunger
Games, Divergent, The Giver) ed un assai, a me, meno noto impegno di femministe (il femminismo è utopia?) nella stesura di romanzi distopici che sovvertono le sacrosante aspettative della parità
di genere. Incontriamo anche autori come Ballard ed Houllebecq, mentre solo marginalmente Dick e Palahniuk. Comunque tutti scaricano sul futuro le paure contemporanee per un futuro
imperscrutabile dove l'ottimismo potrebbe mascherarsi: pensare il bello mentre il tempo volge al brutto.
Buona lettura di speranza e di paura.