Autore: Pete Townshend
Giudizio: ***
Pete Townshend, lo sanno tutti, è il teppistello modaiolo, ed oltre modo ricco, che poteva distruggere ad ogni concerto chitarre ed amplificatori e che scriveva e cantava che meglio sarebbe stato
non invecchiare per non diventare il vecchio che lo giudicava senza capirlo. Era la sua generazione.
In realtà la sua generazione, o meglio il suo status di rockstar "sfortunata", gli ha concesso di invecchiare lasciando che altri amici, il più sbruffone tra tutti Keith Moon, raggiungessero
prematuramente il capolinea della strada raccontata in "My Generation", un manifesto inconsistente perché tradito dagli eventi. Pete Townshend è il "deus ex machina" che saltava sul palco di una
straordinaria rock band che ha infiammato con musica, e collaterali trasgressioni, la meglio gioventù da metà anni '60 a fine anni '80: gli Who! Un personaggio pubblico di cui tutti i cultori del
genere si sono nutriti per anni sapendone l'arroganza, la superbia, l'egocentrismo e tutto l'armamentario che si confà ad una rockstar che sia degna di questo nome. Ricordo che a metà anni '80
apparve sullo scenario musicale hard rock una band americana i cui componenti erano "realmente alternativi" e bevevano succhi di frutta dietro alle quinte, però io non ricordo il nome di questi
"iconoclasti" del rock, mentre ricordo gli assoli di chitarra del buon vecchio Pete prima che la chitarra venisse offerta come sacrificio musicale al dio rock.
Se Pete Townshend è un personaggio pubblico e ne conosci i tratti distintivi, perché leggerne l'autobiografia che altro non potrebbe essere se non un anziano crogiolarsi nell'agiografia
mitizzante, giustificatrice ed autoassolutoria di una vita percorsa sul "lato selvaggio"? Per lui, ed i "sopravvissuti", in fondo è sempre la sua generazione. Pura curiosità, o forse capacità di
incuriosirmi da parte della recensione del libro apparsa qualche mese fa sul non casuale "Il Mucchio Selvaggio" (in epoca di attenuazione degli impatti destabilizzanti e per non provocare
sommovimenti fuori dal controllo ora diventato il meno combattivo "Il Mucchio" con una sintomatica elisione che rievoca maggiormente la "rockstar" che beveva i succhi di frutta dietro le
quinte).
La storia che ho letto va ben oltre il preconcetto di cui sono intriso. Le cose più belle che io conosco di questo signore inglese (definizione più lontana dallo status di rockstar non riesco a
trovarla) sono solo una minima parte di quello che racconta. Riesco a scorgere un filo conduttore della vita di Townshend al di là dei quindici anni vissuti pericolosamente scorrazzando e
saltando sul "lato selvaggio". Certo per le mie orecchie quelli restano i quindici anni più proficui, ma il come c'è / ci sono arrivati è una scoperta. La mia è una scoperta che era nascosta dal
semplice apprezzamento per quella musica. La ricerca ed il lavoro che c'è dietro quella musica è una scoperta. La persistenza di entità filosofiche (ricerca di arte anche attraverso la musica, ma
non solo, sperimentazioni tecniche oltre che culturali, percorsi di fede interiori e personali, amore per la navigazione, consapevolezza della fortuna, disagio per un passato vagamente emerso, ma
non afferrato, perenne sentimento di inadeguatezza al "ruolo") è una scoperta. Tutto questo annegato nell'atteso e scontato "già noto" e, per un dilettante del culto Who quale io sono, posto nel
quadro che descrive la fiamma che altro non può fare che bruciare la rockstar, vestale del "sacro fuoco del rock".
Nota a margine: la lettura ti coinvolge non per il come è scritto il libro, ma per cosa è scritto nel libro. Tra scrittore e compositore/chitarrista il secondo vince alla grande, non c'è partita.