La leggenda narra che la pizza aprì il mio cuore ed il mio stomaco ai parenti di Pomigliano d'Arco.
Avevo 2 anni la prima volta, 8 anni la seconda volta che andai a Pomigliano d'Arco ed ero circondato da decine?, centinaia?, migliaia? di parenti napoletani. Ma potevano essere così tanti? Era
mai possibile che ogni giorno ne saltasse fuori qualcuno fino a quel momento mai visto? La risposta è sì! Con i nonni ed i genitori ero "sceso" a trovare bisnonni, prozii, cugini, ma erano troppi
perché riuscissi a classificarli, catalogarli, identificarli, anche solo per filone familiare: lato nonno Felice, lato nonna Maria. E poi si chiamavano tutti Vincenzo, Antonio, Salvatore. Se ne
nominavi uno, per capire a chi ti riferivi, si doveva specificare anche il nome del padre! Una complicazione elevata al quadrato! Antonio e' Totòn, Cenzino e' Aniello e così via per infinite
combinazioni.
Questa situazione di base va peraltro inserita in un protocollo di comportamenti e di relazioni degni di una famiglia reale, protocollo che per fortuna mi era trasparente. Era tutto in carico a nonno Felice che se ne faceva artefice e garante. Aveva stabilito una rigidissima sequenza per le visite parentali che si dipanava per una gerarchia che prevedeva tre parametri di riferimento: lato maschile, vicinanza del grado di parentela, anzianità. La priorità era data al parente più prossimo dal lato di nonno Felice, a meno che non subentrasse il fattore anzianità. In quel caso allora si doveva scandagliare l'albero genealogico e stabilire se la vicinanza di parentale poteva superare l'anzianità, oppure no. Disciplina complessissima che non lasciò il nonno Felice immune dall'errore, tale o presunto. Da buon Caiazzo il nonno non ammise mai nessun errore. Del resto almeno per metà aveva a che fare con dei Caiazzo con pari caratteristica e quindi, anche in assenza di ammissione o conclamata acclarazione dell'errore, i musi lunghi per chi si riteneva impropriamente scavalcato nella gerarchia naturale si manifestarono. Il rigore della conclusione a "tarallucci e vino" garantì comunque grande serenità e pace.
Di conseguenza, sulla base del protocollo, si prevedeva un quotidiano percorso con pranzo a casa di un Vincenzo e cena a casa di un Antonio. Il ringraziamento alla splendida e festosa accoglienza si misurava in base a quanto gradivi tutto quel ben di Dio che ti offrivano. Parliamo di quantità di cibo da paragonare al monte Everest e non al monte Cimone. Ed io che notoriamente, nonostante fossi cicciottello, non ero un gran mangione, non davo soddisfazione nemmeno su quel versante: né quantità, né qualità, né varietà, tutte innegabili, scalfivano il mio deciso "no, grazie". Il mio rifiuto al cucchiaio in più, a quel tipo di cibo, a quella particolare pietanza lasciava l'amaro in bocca, gli ospiti restavano tra lo stupito ed il deluso. Erano impreparati a capacitarsi dell'esistenza di un bambino che non mangiasse tutte quelle cose. I cuginetti effettivamente avevano una voracità stupefacente. In alcuni casi anche mio padre era in difficoltà a tenere il loro passo.
A seguito dei miei "no, grazie" subentrava la preoccupazione, nella componente femminile della famiglia che ci ospitava, perché non avevo mangiato a sufficienza. Si doveva porre rimedio. Cosa facciamo? Non vorremo mica farlo deperire? Per esempio per garantirmi una robusta e sana costituzione in un'occasione mi proposero di bere un bel bicchiere di sangue di non so quale animale. Solo guardare il bicchiere era per me inquietante. Per fortuna mia madre si oppose mettendo a repentaglio l'incidente diplomatico. Che però non ci fu, per mio merito involontario, in fondo ero la "creatura".
Gli unici pasti che gustavo, e per i quali davo grande soddisfazione alla zia Vincenza ed allo zio Santino che ci ospitavano, erano la colazione e la merenda. Il motivo è semplice: a colazione il caffè latte era accompagnato da buonissime fette di pane di Napoli con marmellata ed a merenda le stesse fette di pane erano accompagnate da prosciutto. Ma quel pane lo avrei mangiato anche da solo, anzi lo mangiavo anche da solo per semplice golosità. Avrei pranzato e cenato con quel pane, sarei andato avanti per la giornata intera, ma avrebbe significato dare l'impressione di non gradire tutto il lavoro che la cugina o la zia di turno aveva fatto per noi. L'idea veniva scartata a priori.
Poi, non so a chi e non so come, si accese la lampadina pizza. La leggenda vuole che all'età di 2 anni mi venne proposta la pizza che non avevo mai mangiato. Iniziai a mangiarla in modo inarrestabile, la chiedevo, la cercavo, la bramavo. La pizza era il pasto perfetto che garantiva in me un gradimento sicuro e la terminazione della teglia predisposta per l'occasione. In quel caso ero io che diventavo il bambino insaziabile: chi ha finito la pizza? Massimo! Urrà! Insuperabile, la Margherita era capace di intrattenermi a tavola per tempi che nessuna altra pietanze avrebbe garantito. Anche la mia partecipazione alla socializzazione di gruppo ne ebbe giovamento, come se fossi più simpatico, più gioviale e meno scostante. Forse, ma questo è tutto da dimostrare, la pizza mi aiutava a capire gli intercalare dialettali utilizzati dai parenti. :-) Si era aperta una porta che non sarebbe più stata chiusa. La soluzione era nella pizza e quale luogo migliore di Napoli per garantire quel tipo di soluzione?
Tutt'oggi, tendenzialmente, resto in sintonia con la Margherita, ma non disdegno il calzone normale o farcito, la quattro stagioni, la capricciosa. Mangerei la pizza tutti i giorni, anche pranzo e cena e sono certamente convinto che mangiare la pizza di per sé sia un elemento che mi rende più simpatico e più socievole. Ed ho una controprova certa: sono in astinenza pizza da più di due mesi ed in effetti chi mi sta più vicino mi dice che sono prossimo all'insopportabilità totale e globale, roba da guerra termonucleare. :-)