Domenica sera ho avuto modo di ascoltare, seppure in modo frammentario, l'intervista che Fabio Fazio ha fatto a Pietro Ingrao. L'occasione è stata "procurata" dalla pubblicazione per Einaudi del
libro di Ingrao "Volevo la luna". Per i più giovani, o per chi avesse dimenticato, Pietro Ingrao è una figura capitale nella storia della nostra democrazia.
All'inizio della seconda guerra mondiale aderì al PCI clandestino e partecipò attivamente alla resistenza. Eletto in parlamento nel 1948 il suo nome sarà sempre legato alla "sinistra" comunista,
quella marxista-leninista, in contrapposizione alla "destra migliorista" il cui leader era Giorgio Amendola e di cui faceva parte anche l'attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Il suo contributo nel partito fu grande. Direttore de "l'Unità" durante i fatti di Budapest nel 1956 non seppe e non volle contrapporsi all'uso della forza che l'Unione Sovietica fece contro i
compagni ungheresi.
Diversa fu la posizione in occasione dei fatti di Cecoslovacchia nel 1968 quando i tempi erano già mutati anche nel PCI e ci si stava avviando allo "strappo" di Berlinguer con l'URSS.
Dal 1976 al 1979 è stato presidente della Camera e come terza carica dello Stato visse in prima persona il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro.
Con la caduta del muro di Berlino partecipò attivamente alla nascita del PDS, ma se ne staccò molto presto non riconoscendosi nel percorso teorico ed organizzativo che la parte del PCI che in esso
confluì stava affrontando.
Questa brevissima biografia mi serve per inquadrare la persona che non fu facile a compromessi e che forse, anche per questo, non diventò segretario del PCI alla fine degli anni '60 (gli si preferì
Berlinguer) quando le condizioni italiane potevano porre la basi per una sua segreteria. La cosa che mi ha colpito nell'intervista rilasciata a Fazio sono la grande schiettezza di un vecchio
novantenne che non rinnega la sua storia, ma che ne comprende i "limiti".
In una scena politica italiana dove Follini fonda il movimento "Italia di mezzo" e dove, tra ondivagazioni anche dei leader politici di primo piano, il metodo del colpo al cerchio e del colpo alla
botte sembra la panacea dei problemi italiani, Igrao si pone autorevolmente al di sopra di queste "piccolezze". Ha la schiettezza di dire quello che molti nostalgici non vogliono sentirsi dire e di
ricordare quello che molti leader politici della sinistra non hanno il coraggio di affrontare per mero calcolo elettorale o di potere.
In sostanza Ingrao riconosce la sconfitta del comunismo, come pratica che non è riuscita a portare un reale miglioramento delle vite di milioni di uomini e donne del proletariato. Il sole
dell'avvenire non è mai sorto, anzi la sconfitta è indiscutibile.
Ma al contempo, partendo da questo pesantissimo fardello, alla domanda di Fazio "ma ha ancora un senso essere comunisti oggi?" Ingrao rimane sopreso e risponde: "Pensa forse che io non sia più
comunista?". A questa domanda "provocatoria" argomenta con la consapevolezza e la lungimiranza di chi ha fatto politica, ed ha anche perso tante battaglie, per delle idee, per degli obiettivi che
andavano ben oltre, ben al di là, della mera conquista del potere come tanto politicume odierno ci mostra.
Ingrao è ancora comunista ed affronta la questione di petto, con una sorprendente "mozione di intenti" che tanti politici di sinistra oggi non sono nemmeno in grado di capire. Afferma che essere
comunisti ha ancora una sua validità perché viviamo in una società dove le classi proletarie sono ancora soggiogate dall'arroganza e della sopraffazione dei padroni. Essere comunisti significa
lottare ed adoperarsi perché queste ingiustizie vengano finalmente meno. Il dibattito che si è aperto in questi mesi sul futuro del socialismo sta tutto in questo concetto. Con buona pace di
riformismi, migliorismi e sofismi che riempiono pagine e bocche di nulla.