Questo post nasce da alcune considerazioni fatte qua e là a seguito della scandalosa pubblicità del presidente della provincia di Chieti che ha pensato bene di reclamizzare i "Centri
perl'impiego" con la funesta frase: "Il lavoro rende liberi".
Un blogger amico (se mi sta leggendo e non mi ritenesse tale ha ovviamente il diritto di replica), ha fatto un post dove giustamente condannava la scelta del presidente della provincia di Chieti,
macontestualmente faceva alcune considerazioni sulla frase in se, ovvero sulla frase "estrapolata" dalla cancellata di Auschwitz. Per chi fosse interessato a questo post lo può leggere qui.
Al contrario io credo che il contesto non possa essere mai omesso. Il nazismo non è stato solo un regime dittatoriale, ma è anche stato un'espressione "culturale" che escludeva chi non
era"idoneo".
Tra gli altri anche zingari, omosessuali, avversari politici e malati di mente che sono morti per i loro "difetti" nelle stesse camere a gas dove hanno trovato la morte milioni di ebrei (anche
questoera un difetto).
Detto questo mi viene da pensare che uno slogan partorito da questo retroterra culturale abbia in se qualcosa di "sbagliato". Se è vero che noi nasciamo liberi (la libertà ci è donata per
natura)allora non posso ammettere che sia il lavoro a renderci liberi. Non lo ammetto nè se a scriverlo è un maggiore nazista, nè se a scriverlo è un presidente di provincia ignorante.
Se è vero che noi viviamo in una repubblica democratica fondata sul lavoro è anche vero che la democrazia che ci troviamo nelle mani esiste perché i nostri nonni hanno combattutto per poter
scriverequella costituzione. Hanno combattuto proprio il nazismo ed il fascismo. Riproporre gli schemi culturali di questi regimi tramite i loro slogan è inaccettabile.
Dal punto di vista "pragmatico" del se pago le bollette perché ho un lavoro sono libero, se non le pago sono in "gatta buia" il discorso ovviamente assume un altro significato, ma io credo che
siauna distorsione della società che viviamo. Noi siamo liberi solo nella misura in cui siamo economicamente autonomi, oppure siamo liberi perché nasciamo liberi?
E' un discorso assai complesso. Ultimamente mi è capitato più volte di fare considerazioni su un aspetto clamoroso della nostra società. Stiamo diventando innanzitutto dei consumatori piuttosto
chedei cittadini.
Un amico tornato da New York mi ha detto affascinato: "Cazzo là tutto è aperto 24 ore su 24!!!". Vi lascio intendere che non pensava alla qualità della vita di chi è costretto a lavorare 7 giorni
su7 dietro banconi commerciali dall'una di notte alle nove di mattina.
Nella nostra società i diritti sono quelli dei consumatori in primis e poi (forse) dei cittadini (vedi anche l'ultima querelle sulle liberalizzazioni). Questo spiega anche la grandissima
visibilitàmediatica che hanno le associazioni dei consumatori che spesso sostituiscono i partiti politici ed i sindacati nel loro tradizionale ruolo di "aggregazioni per la rivendicazione e la
tutela deidiritti delle persone che rappresentano e per il corretto compimento del processo democratico del paese che si sostanzia nella rappresentanza nel parlamento" (passatemi questo concetto
che èimproprio ed è una forzatura, ma mi serve per far capire come una volta era il partito politico o il sindcato che tutelava il cittadino, mentre ora il cittadino, che si sente per primo
consumatore, èmeglio rappresentato dalle associazioni dei consumatori).
Mi pare che tutto si stia trasformando in merce (avviene per la sanità, per l'istruzione, per il lavoro, ...) e che in quanto tale si riduca tutto al concetto di "comprare beni o servizi" e
di"rivendicare le garanzie del bene o servizio acquisito".
La cosa mi fa un po' tristezza se penso che ben altre erano le aspirazioni ideali di personalità che hanno creduto nella libertà. Penso a Mazzini, penso a Pellico, penso a Gramsci, penso a
Gobetti...
Per parafrasare il grande Totò: siamo uomini o consumatori?